BAGHERIA
«Ma tu ci vuoi andare? »
La voce della zia guardava preoccupata mia madre mentre ero seduta sul balcone del soggiorno della casa in via Maqueda a Bagheria, impegnata a districare i lunghi capelli di una bambola.
In fondo alla strada in discesa si vedeva il blu del mare dell’Aspra.
«Ci voglio andare? Brindisi, Palermo, Bagheria, ora il Friuli. E che dovrei fare? Certo che vado con mio marito e con i miei figli. Questo è il suo lavoro …»
«Guarda. La Madonnina! Stiamo arrivando in Sicilia! »
La voce di mia madre era allegra, gli occhi splendevano di una luce particolare che riuscivo a scorgere in lei solo in quell’istante di gioia che si rinnovava tutti gli anni quando iniziava il nostro periodo di ferie.
La nostra famiglia viveva lontano dalla propria terra d’origine, la Sicilia.
Ero una bambina cui piaceva andare a scuola, ma per me l’inizio delle vacanze estive rappresentava l’inizio di una nuova avventura, tutti gli anni diversa e piena di meraviglie.
Il viaggio, al mio sguardo di bimba, appariva avventuroso.
Dopo avere percorso l’Italia dal Friuli con la nostra Fiat 1100 sino a Salerno, iniziava una strada piena di tornanti, ma con panorami mozzafiato. La natura esplodeva sempre più rigogliosa e persino i colori acquisivano una nuova vividezza e si esaltavano i profumi.
Il mare era di un azzurro sbalorditivo e dall’alto si ammiravano paesi arroccati ai cui piedi si estendevano spiagge sabbiose alternate a cale rocciose, che man mano che il viaggio proseguiva divenivano sempre più spettacolari.
Ogni anno ci recavamo nella grande casa di campagna di una delle tre sorelle della mamma. La proprietà aveva un nome che evocava la terra e i profumi del Mediterraneo: “La Ginestra”.
Situata vicino a Palermo, su una collina nella Conca D’oro, dominava dall’alto un mare stupendo dal quale emergeva orgoglioso il promontorio dell’Aspra che delimitava il golfo di Trabia. Nei giorni limpidi si potevano intravedere le isole Eolie.
Alloggiavamo lì per un mese, insieme alla famiglia di zia Rosa e ai nonni. Le quattro sorelle, tutte sposate e con bambini, si riunivano lì la domenica e i giorni di festa.
«Eccoli! » Sono arrivati!»
Voci festose si rincorrevano precedendo l’allegra corsa sulla discesa sino al piazzale in cui si parcheggiavano le auto. In quell’epoca la ripida stradina che conduceva in cima era di terra battuta e all’arrivo delle automobili, si sollevava un gran polverone.
Quegli abbracci e quei sorrisi accompagnano ancora oggi il ricordo di quegli anni.
Ricordi densi, che avrebbero gettato le basi dell’essere “famiglia”, nel senso più puro della parola.
Mi sembrava d’entrare in un mondo incantato, una terra preclusa al resto del mondo.
La natura era rigogliosa, splendida: ulivi secolari e mandorli affondavano le loro radici in zolle indurite dal sole. Sul fronte della casa, un largo spazio, c’erano aiuole fiorite di rossi gerani, belle di notte e altri fiori dalle corolle vivaci.
Sul muro si arrampicava un gelsomino il cui profumo, al tramonto, si diffondeva in magiche ondate odorose. Intanto, dall’alto, il mare prometteva giorni felici.
La casa era accogliente: una grande cucina, un salotto e una scala che conduceva al piano superiore, alle camere.
Aspettavamo gli altri cuginetti per giocare in libertà, in un tempo in cui il timore sulla nostra incolumità non aveva ancora assunto le dimensioni attuali.
Giocavamo nei pressi della casa e qualche volta ci allontanavamo. Ma c’erano i fratelli maggiori che si sentivano investiti di grande responsabilità nel prendersi cura di noi più piccoli. In realtà talvolta erano annoiati dalle continue raccomandazioni dei nostri genitori, però alla fine si andava via tutti insieme.
Schiacciavamo le mandorle appena raccolte con le pietre, ma l’impresa più difficile era quella dei cugini più grandi, raccoglievano fichi d’India che poi erano riposti in un secchio di zinco.
La plastica era ancora utilizzata pochissimo e alle nuove generazioni sembra incredibile un mondo in cui non fosse presente in ogni utensile o accessorio immaginabile.
Il compito delle “femmine”, come i fratelli erano soliti chiamarci con evidente aria di superiorità, invece, era più semplice. Si fa per dire. Raccoglievamo le more e non era certo un’impresa facile. Le più belle erano al centro del rovo e avevo sempre paura di graffiarmi.
Lì vicino c’era una vecchia casa diroccata in cui evitavamo assolutamente d’entrare: “La casa degli spirdi” (spiriti). Non potevamo sapere che era solo una favola raccontata dagli adulti per non farci avvicinare a un edificio pericolante. Passavamo lì davanti di corsa e col cuore che batteva forte.
Le estati erano stupende e verso le dieci si andava al mare in una spiaggia non lontana, conosciuta dalla gente del luogo come “La pietra piatta”. Per accedervi si attraversava un tunnel sotto la ferrovia, passaggio frequentissimo in quel tratto di costa alta e per lo più rocciosa.
Dopo un paio d’ore, sfiniti e sotto un caldo torrido, si rientrava e a questo punto c’era il rito del pranzo. Apparecchiavamo su un lunghissimo tavolo dell’ufficio postale che era stato acquistato a poco prezzo quando erano stati sostituiti gli arredi. Opportunità, quest’ultima offerta ai dipendenti e gli zii lo erano.
Il tavolo era coperto da quella che chiamavano “n’cerata”, una tovaglia di plastica colorata, talmente lunga da essere arrotolata su una canna di bambù.
Ci contavamo mille volte, come se il numero dei commensali non fosse sempre lo stesso. Noi bambini cercavamo sempre di metterci vicino, sebbene le nostre mamme non fossero troppo d’accordo: “Che vucciria!”- esclamavano ridendo. In alcuni momenti facevano più baccano di noi.
Si mangiava la pasta con il pomodoro e basilico, con le melanzane e le zucchine fritte, i famosi involtini alla siciliana. Era grande poi la festa quando mangiavamo il “pane e panelle”, frittelle fatte con farina di ceci con cui riempivamo panini cosparsi di semi di sesamo. Poi c’erano le granite e il “gelo di melone” ricoperto di cioccolato. Insomma, un pranzo che durava ore e man mano che il tempo passava noi bambini, insofferenti di essere restati immobili per un tempo che ci sembrava eterno, uno per volta ci alzavamo per correre a giocare.
Le prime ore del pomeriggio scorrevano lente nell’attesa del calare del sole e nella speranza di un po’ di frescura.
I fratelli maggiori si erano inventati una strana “band” i cui strumenti erano costituiti dai coperchi delle grandi pentole di alluminio in cucina e un mio cugino usava dei cucchiai di legno come fossero bacchette di batteria. La cosa più divertente per loro erano le urla del nonno, che non riuscendo a riposare, si affacciava alla finestra:
«La vogliamo finire? Sì o no? »
Le madri, che trascorrevano ore intere a lavorare all’uncinetto, a quel punto si alzavano per acchiapparci e tenerci buoni.Amavo alcune volte starmene da sola, con la schiena poggiata a un vecchio ulivo. Il rumore del vento, tra le foglie, mi sembrava una voce e fantasticava di principesse, principi azzurri, fate, incantesimi.
Abbracciavo gli alberi, a volte sussurravo:
«Respira…».
Mia madre sorrideva. Era particolare, la sua bambina. Non sapeva il perché e in fondo neanche riteneva tanto importante saperlo.
«Quando è nata, ha nevicato!» raccontava, come fosse stato un prodigio, per lei, donna del Sud.
Mi piaceva prendere la terra tra le mani e staccare i petali dal geranio rosso, che cresceva rigoglioso sulla bocca di una vecchia giara, inumidirli e farne lunghe unghie da signora.
Alla sommità del vialetto in salita che conduceva alla casa, c’era la vecchia giara.
La mia professoressa d’italiano, alle medie, appassionata di Pirandello, ci avviò alla conoscenza di quest’autore attraverso la lettura appunto della famosa opera. Forse fu per questa ragione che io immaginavo che Zi’Dima fosse lì dentro con Don Lollò che urlava come un pazzo in preda alle convulsioni.
La sera si preparava la cena e tutti dicevano di non aver fame, ma in realtà s’imbandiva di nuovo tavola e dopo cena, le zie che abitavano a Palermo si preparavano per tornare a casa. Noi rimanevamo a salutarli dall’alto mentre salivano nelle macchine parcheggiate nel piazzale di terra battuta, un po’ più giù.
Eravamo stanchi ma contenti.
La notte era arrivata e il mare, sotto un cielo illuminato da mille occhi, si puntellava di numerose lampare. All’inizio alla Ginestra non c’era neanche la corrente elettrica e il calare del buio dissuadeva noi bambini dall’allontanarci.
Gli alberi amici, rivestiti dalla luce della luna, mi apparivano come un bosco incantato e forse avevo paura di quei rami, lunghe braccia tese a solleticare il cielo.
Nonna Concetta a questo punto annunciava la buona notte e raccoglieva alcuni gelsomini che ogni sera poggiava sul suo comodino. Il profumo del gelsomino:
non c’è una sola volta, in cui percepisco quel profumo, che non pensi a lei.
Spesso si alzava il vento di Scirocco. L’aria diventava pesante, a momenti irrespirabile, i contorni del paesaggio sfocati per l’eccessivo calore.
Alle spalle della Ginestra, che si trovava su una collina, si stagliavano montagne altissime. Erano brulle, nessun albero o macchia verde a spezzare il riflesso abbagliante. Come se una mano avesse spazzato via anche la più remota speranza di vita, l’ultima possibilità d’insediamento umano.
In quei giorni il sole appariva appannato sin dall’alba, il calore insopportabile seccava le labbra, affaticava la vista e non avevamo il permesso d’uscire all’aperto. Da sempre era quello il modo d’aspettare che passassero giornate simili.
Erano tirati dentro anche i due cani, nel salottino al pianoterra e venivano chiuse le finestre, avendo cura di avvicinare le ante ai vetri per mitigare il riverbero del sole. Sigillate anche le due pesanti porte di legno che di solito erano chiuse solo la notte.
L’interno della casa era abbastanza fresco, protetto da spesse pareti.
Era un problema tenere buoni noi bambini, abituati a scorrazzare liberi lì intorno. Scalciavamo come cavalli legati per la cavezza.
A un certo punto le mamme dovevano inventare qualcosa per intrattenerci e non di rado, in quelle lunghe giornate, si prendeva dalla ghiacciaia un’enorme anguria.
La preparazione del “gelo di melone” era un rito. Il compito di ricavarne grosse fette era assegnato al maggiore dei cugini. Ai bambini il compito di togliere tutti i semi. In seguito si passava la polpa nel vecchio passa-pomodoro che ogni tanto “inciampava” in qualche seme superstite schizzando mamma o zia che si alternavano esclamando, ogni qualvolta: «Che camurria!»
Il liquido era quindi versato in una tazza che fungeva da misurino e se ne ricavava un delizioso e profumato budino che riempiva colorate coppette e posto a raffreddare nel frigo, non prima d’essere ricoperto di cioccolato grattugiato.
E’ incredibile come alcune cose restino impresse nella nostra memoria, in particolare gli odori. La memoria li incamera rapidamente per poi renderceli nei momenti più impensati. Anche dopo tanti anni, il profumo dell’anguria mi ricorda visi, risate, attese che sanno di buono.
Ecco, appunto, attese. Il gelo di melone doveva diventare freddo e ancora una volta le mamme lasciavano che i figli maschi giocassero a carte o leggessero qualche giornalino, invece impegnavano noi bambine nei lavori tradizionali, come l’uncinetto. Per le mamme era un sacrosanto dovere insegnare a ricamare, a lavorare e, sebbene piccole, le nostre mani imparavano velocemente. Noi cugine conserviamo ancora qualche ricordo di quelle estati, con pizzi e merletti praticamente identici.
In quell’epoca era molto severa la distinzione tra le attività idonee a un maschio e a una femmina. Ricordo ancora gli spintoni dei miei cugini quando volevo salire con loro su un vecchio ulivo che chiamavano pomposamente “il nostro aereo.”
La voce curiosa di mia cugina aveva fatto sollevare lo sguardo anche della sua sorellina più piccola. Eravamo sedute sotto a un vecchio ulivo a giocare.
« A me sembra bello. Diverso da qui. C’è freddo e d’inverno nevica. È bello quando nevica…Tutto bianco…Ma adesso è presto. Quando andiamo via da qui, lì comincia a piovere ed io ho paura dei tuoni. Mi viene mal di pancia. »
«Sei una polentona! Sei una polentona! » La voce stridula della cuginetta più piccola mi prendeva in giro.
«E già! Tu mi chiami polentona e lì qualche compagna terrona! Uffaaaaaaa! »TOLMEZZO
Ricordavo con nitidezza d’immagini l’arrivo in Carnia.
Tutto in quell’epoca mi appariva un nuovo mondo da esplorare e quando vidi per la prima volta la grande vecchia caserma in cui avremmo abitato, in un alloggio all’ultimo piano, mi sembrò fantastica.
Sembra incredibile come l’occhio di un bambino possa dilatare gli spazi tanto da lasciare traccia della loro ampiezza nel ricordo. Di certo una questione di prospettiva o più semplicemente, d’altezza.
Tutto sembrava enorme, il pesante portone di legno massiccio che dava l’accesso anche ai mezzi pesanti al cortile interno, i corridoi, le scale d’accesso ai piani superiori. In seguito avrei scoperto, con mio fratello, anche le grandi camerate, assolutamente inutilizzate poiché quasi tutti i poliziotti in realtà alloggiavano all’esterno.
Papà prese servizio lì, con la qualifica di commissario di P.S., il primo settembre, lasciando la piena estate siciliana e trovando già giornate molto più fresche.
La pioggia era un elemento quasi quotidiano.
Mi piaceva guardare la pioggia da dietro ai vetri. A volte però mi spaventavo tantissimo dei temporali, quando i tuoni rimbalzavano da un monte all’altro e pareva che il mondo si dovesse spaccare in due come una mela. L’Amariana e lo Strabut con le loro maestose cime dominavano il paese.
All’inizio si avvertiva, nella gente, una certa diffidenza verso i nuovi arrivati. Ed erano davvero in tanti, i militari che giungevano a Tolmezzo in quegli anni.
La gente, una volta superato l’impatto iniziale, sapeva poi aprire il proprio cuore, riuscendo a ben accogliere e fare partecipi delle loro tradizioni.
La vita cittadina era concentrata in una grande e bella piazza su cui si affacciava la Chiesa Madre, frequentata regolarmente dalla mia famiglia e palazzi con ampi portici che permettevano la sosta anche nei giorni piovosi.
L’alloggio da un lato si affacciava sul cortile, dall’altro su una strada che costeggiava la chiesa. Dalla finestra della camera che all’inizio dividevo con mio fratello, si vedeva un tetto di tegole rosse che copriva il piano sottostante, un’ala della caserma destinata agli uffici. Per la prima volta vidi un pavimento fatto d’assi d’abete tinte marrone scuro e una cucina economica, grande e tutta bianca.
Molto belle erano anche delle stufe color rosso ocra di mattoni refrattari che
riscaldavano le camere.
Trovavo normale il mio giocare nel cortile, quando il tempo era bello, e non mi creava alcun disagio quel via vai di agenti in divisa impegnati nello svolgimento del loro lavoro.
Il primo giorno di scuola tornai entusiasta. La maestra appariva severa, le compagne parlottavano tra di loro, alcune in friulano. Non capivo neanche una parola, ma presi bene anche questa novità.
La maestra, nonostante non fosse giovanissima, era un’illuminata.
Fu lei a insegnarmi a scrivere e leggere con il metodo globale (sperimentale, disse a mia madre), metodo che appariva stranissimo e inadeguato a bambini di quell’età agli occhi d’adulti che si aspettavano che se iniziasse con le aste, ancora in uso nella maggior parte delle scuole elementari.
I suoi racconti sulla guerra mi affascinavano e ancor di più ero incantata nell’ascoltare di quando nascosero in casa loro fuggiaschi, partigiani ed ebrei.
Riuscì a seminare un terreno che si rivelò fertile. Il tempo passò ed io mi appassionai alla storia di quegli anni e cercai di capire come l’Uomo possa concepire progetti di sterminio verso i propri simili e quali siano le reali cause che li determinano.
La vita procedeva serena e alle piogge di fine estate, copiose e spesso ininterrotte per giorni e giorni, seguiva un autunno che portava il primo freddo e ammantava di porpora e oro i rigogliosi boschi oltre a colmare il letto del Tagliamento che, dalla secchezza estiva, passava all’improvviso a diventare irruento, a tratti violento nel suo scorrere.
Trascorrevo ore a guardare giù, anche dal lato della camera dei miei genitori e del soggiorno, che si affacciavano di fronte all’ingresso laterale della Chiesa di San Martino dell’annesso campanile e da cui intravedevo il grande portone d’accesso alla caserma.
Mio fratello ebbe l’incarico d’accompagnarmi a scuola e di non andare via se prima non fossi entrata nel portone. Ricordo ancora che lui, molto più alto di me mi stringeva forte la mano e dopo la neve o le notti polari, in cui si formava uno strato di ghiaccio, io scivolavo rovinosamente ma ridevo pure mentre lui m’aiutava a rialzarmi per riprendere la corsa verso le rispettive scuole.
Il tempo passava e noi due c’eravamo ambientati bene e i giorni di festa erano gioiosi e spensierati, quando andavamo in giro in auto con i nostri genitori: boschi, il lago di naturale di Cavazzo, quelli artificiali di Verzegnis e del Sauris, e poi corsi di fiumi nella loro bellezza di ciottoli quando erano in secca e la loro imponenza al disgelo.
Dopo le nevicate, era splendidi il sole abbagliante e la cioccolata calda in locali caratteristici rivestiti di legno.
Mio padre ci portava spesso anche in Austria attraversando il valico di Monte Croce Carnico.
Amavo tanto leggere favole e, quando ammiravo tutta quella neve, mi sembrava il regno della “Regina delle nevi”. La fantasia di una bambina non ha limiti.
Il freddo era tanto, almeno per noi, e il cinema era un luogo che frequentavamo tantissimo. Non ho mai più visto dei cinema così pieni di militari come a Tolmezzo.
Arrivò il primo Natale e un bellissimo e folto abete fu piazzato nel nostro soggiorno. C’era la neve e la preparazione di quell’albero fu indimenticabile per me. La punta sfiorava il soffitto e il profumo di resina inondava la stanza. Appendemmo le palline di sottilissimo vetro decorato dai tanti colori vivaci ai rami con del cotone verde. Immaginare che Babbo Natale potesse arrivare con una slitta tirata da renne, sembrava un’ipotesi molto più tangibile rispetto al clima in cui si svolgevano i Natali al sud.
La suggestione, nella chiesa che a me sembrava enorme, era fortissima e quella notte aveva davvero della magia.
«Nonna Emma, guarda la neve! Abbiamo fatto un pupazzo grande!»
La più piccolina ripete: «La neve, la neve!»
Le voci gioiose delle mie nipotine hanno aperto la porta dei ricordi.
«Fantaçute, e vorès di metii un cjapiel…une siarpe.. une carote par nâs!»
Il brigadiere Linussio, che in quel giorno era di servizio all’ingresso della caserma, mi osservava divertito mentre mi affannavo a costruire il mio primo pupazzo di neve.
Mi ero abituata a sentirmi chiamare così, io che ero minuta ma sempre allegra, tanto da suscitare simpatia in quegli omoni in divisa.
«Mammaaaa! Ci vuole un cappello…una sciarpa…una carota!» gridai salendo rumorosamente e di corsa le scale di legno che conducevano al nostro alloggio.
Fu così che io scoprii il sapore della neve.
9 OTTOBRE 1963
Credo che nella vita d’ogni individuo esista un momento di “passaggio” dall’assoluta spensieratezza dell’infanzia alla consapevolezza della vulnerabilità dell’Uomo. Viaggiando a ritroso nel tempo se ne trovano le tracce e di solito non è complicato ricordare quale sia stato in assoluto l’elemento scatenante di tale passaggio. Nella mia storia di certo fu ciò che accadde il 9 ottobre 1963.
Quella mattina mia madre era taciturna e triste. Le chiesi dove fosse papà e lei rispose che non si trovava già in ufficio, ma che era dovuto andare fuori paese per lavoro.
Non avrei potuto neanche immaginare la motivazione di quell’insolita assenza.
‹‹Adesso va’ a scuola, Francesco è già pronto. Non farlo arrivare in ritardo.››
Per strada, quel giorno, si respirava un’aria strana. Visi tirati e capannelli di persone a parlare di ciò che era accaduto non troppo lontano. Il senso di dolore, d’ingiustizia e di rabbia era dipinto nei volti tristi e il parlare sommesso in piccoli gruppi, in segno, immagino, di rispetto e lutto.
I bambini percepiscono la gravità della tragedia, anche se la vera e propria consapevolezza della fine dell’esistenza umana si realizza davvero con l’assenza fisica di volti conosciuti e spesso amati.
A scuola la maestra ci spiegò cosa fosse realmente accaduto, con parole semplici, tanto che noi bambine (le classi in quegli anni non erano miste) potessimo comprendere comunque che quando si sfida la natura, lei si ribella.
In televisione e per radio giunsero dapprima notizie confuse, poi via via che le ore passavano si delineò la reale dinamica della tragedia.
I presupposti per l’accadere di una catastrofe c’erano tutti. La toponomastica del luogo racconta proprio questa storia: “Toc” significa “pezzo, marcio”. Ma fu proprio lì che si volle costruire quella che fu definita “La banca dell’acqua”.
Una frana dal monte Toc era arrivata nel lago artificiale creato dallo sbarramento del fiume alla velocità di circa 100 km. orari provocando un’onda d’oltre 250 m. a tre punte.
In pochi minuti oltre 2000 vittime solo a Longarone, da sommare ad alcune centinaia dei paesi limitrofi. Fango, pietre, macerie furono ciò che restava di un progetto ambizioso e incurante dei risultati di perizie geologiche verificate nel corso degli anni che avrebbero dovuto dissuadere dalla realizzazione dell’opera.
Tolmezzo era sede di numerose caserme di diverse Armi e noi abitavamo in quella adiacente al Duomo di Tolmezzo. Partirono colonne di militari alla volta dei paesi colpiti dal disastro per recuperare i corpi delle vittime e prestare aiuto ai sopravvissuti.
Mio padre tornò dopo diversi giorni e ci raccontò di fango e devastazione totale.
Il suo viso, al ritorno, era contratto dalla stanchezza e dal dolore. La percezione del disastro che si sarebbe potuto evitare, fortissima. Nei suoi occhi una tristezza profonda, un senso d’impotenza e ribellione al tempo stesso.
Dormì a lungo, non ricordo quanto. Ricordo solo mia madre che ci raccomandava di farlo riposare e noi ubbidienti e silenziosi.
Eravamo già stati a vedere quella colossale opera ingegneristica, in seguito papà ci volle riportare lì. Probabilmente voleva mostrarci che la diga costruita dall’Uomo non aveva ceduto, ma che nessuno era stato capace di contenere la forza della montagna. Prendemmo coscienza, noi bambini, dei limiti umani.
Nel 1966 arrivò un nuovo trasferimento e Brindisi era la sede che ci attendeva.
Gli ultimi ricordi che ho di Tolmezzo sono gli occhi lucidi di mio padre mentre salutava, abbracciando, quelli che lui con orgoglio chiamava “I miei uomini”.
Così rividi la mia bellissima città natale, da cui mancavo dall’età di un anno e di cui non avevo alcuna memoria. Il viaggio della mia vita e della mia famiglia continuava.
Emma Di Stefano